Andrea Cattabriga


Quale innovazione ci salverà?

Non ci salveranno le narrazioni da “nuovo umanesimo”, le presunte rinascite da pandemie che dovevano lasciarci migliori, non ci salveranno da soli tutti i modelli circolari e tanto meno obiettivi qualitativi di  “sviluppo sostenibile” al ribasso, ma una nuova ermeneutica dell’innovazione.

Sulle pagine del sito di Chiara, mi sono detto, bisogna scrivere d’innovazione. Ho pensato parecchio sul cosa avesse senso che spendessi bit e tempo di lettura altrui, per arrivare a decidere che credo meglio spese queste risorse per fare un passo indietro, provando a parlare del perché credo che ci stiamo dedicando in maniera troppo religiosa al discorso sull’innovazione, ignorando retoricamente ciò che dovremmo avere il coraggio di fare.

I fatti, prima di tutto. L’essere che ha creduto di poter plasmare per secoli l’ambiente che lo circonda, che ha creato Scienza, Filosofia e Religioni per spiegarsene il funzionamento ed esercitarne il controllo, sembra divenuto incapace di agire per evitare di perderlo questo ipotetico controllo, ma più che altro per evitare una sempre più probabile e dolorosa resa dei conti con le conseguenze dei cambiamenti climatici. Questa incapacità di agire, che alcuni imputano alla dimensione sistemica e complessa dei nostri problemi, ci ha portati a immaginare diversi modelli di soluzione. C’è chi aspetta che qualche miracolosa tecnologia abbinata a ingenti quantità di capitali ci tiri fuori dallo stallo, c’è chi all’opposto sostiene che essendo troppo tardi per invertire i macro-trend ci si debba rassegnare al tramonto della nostra civiltà (non che si morirà tutti, ma per lo meno ci dovremo abituare a un concetto di progresso un pochino ridimensionato…).

Nello spazio tra queste visioni – che sono pur sempre incomplete e parziali, nel senso che fotografano uno scenario possibile, certamente probabile, ma solo uno dei tanti – dovremmo metterci un modo nuovo di pensare che accetta di stare nella complessità e nell’indeterminatezza, abbracciando il rischio di esistere. Accettare che lo scopo della nostra esistenza non sia costruire sicurezza e certezze, accumulare risorse per minimizzare rischi, ma forse e più semplicemente cercare un modo per vivere godendo più intensamente delle relazioni che danno valore al nostro tempo. Non si tratta solo di nutrire e curare gli affetti, ma di ricostruire la capacità di parlare con noi stessi ritrovando il rapporto con la nostra dimensione collettiva e con tutto ciò che umano non è. Non è una questione filosofica, vorrei essere chiaro: il motivo centrale per cui ci troviamo in questo Antropocene emergenziale è da cercarsi proprio nel senso del rapporto con tutto ciò che abbiamo sempre inteso come risorse a nostra disposizione, accorgendoci troppo tardi che questa nostra indole estrattiva non è certamente guaribile con misure ordinarie.

Ciò che mi preoccupa di più è che il flebile dibattito pubblico, retoricamente incentrato sulla rassicurazione collettiva (“abbiamo ancora 20 anni per fare questo, 10 anni per tentare di fare quest’altro…”, dandoci obiettivi ridicoli e non misurabili), sembra portarci inesorabilmente verso l’accettazione di modelli di soluzione strutturalmente inadeguati (sia perché non mettono a fuoco una roadmap convincete e misurabile e sia perché accompagnati da strumenti di governance altrettanto inefficaci). Siamo inchiodati in un loop infernale tra mancanza d’immaginazione e capacità di credere che esistano strumenti diversi da quelli che abbiamo a disposizione. Chi si immagina di uscire da questo loop esiste, ma siamo diventati incapaci di ascoltare e più che altro di sfidare quel maledetto, sfegatato conservatore del nostro istinto di conservazione, che ogni tanto ci paralizza e ci impedisce di usare quelle doti che tanto decantiamo nel profilo del candidato ideale. L’homo economicus perfetto, il company-guy che tutti sognano e che ci descrivono dagli account Linkedin Premium è flessibile, trasversale, capace di reagire alle avversità, multidisciplinare, impara a imparare, è progettuale, ma anche tecnico e T/H/Z-qualcosa-shaped. Conosciamo bene l’identikit dell’essere in grado di traghettare le nostre organizzazioni nel futuro, ma non siamo capaci di mettere le qualità di quell’essere al centro della soluzione per l’umanità. Ho detto soluzione, quindi immagino ci si aspetti che la metta qui, come se ce l’avessi in tasca. In effetti la soluzione ce l’ho* anche se non è per niente semplice come i più vorrebbero: dobbiamo dare mandato a quell’essere ideale che non accetta di risolvere i problemi da solo, che fa leva sull’intelligenza collettiva (ahimè, non c’è spazio per espandere qui questo concetto), che sta nella complessità costruendo visioni partecipate, sistemiche e adattive (perché sa che non ce n’è una che funziona sempre e dovunque) e che per costruire soluzioni si inventa anche modi nuovi per usare strumenti che già conosce e possiede. Senza questi ingredienti fondamentali nessun piano ci porterà oltre il guado. Nessun approccio altrimenti, ci regalerà la capacità di guardare a ciò che sta oltre la nebbia, ciò che non conosciamo ancora e che possiamo raggiungere solo con metodi che dobbiamo progettare da capo (abbracciando concetti scomodi, dal multispecismo alla decolonizzazione del pensiero, rifiutando quel determinismo arrogante che ci impedisce di capire cosa vuol dire complessità).

Viviamo ancora in quella tragica separazione fra tecnica e società descritta da Bruno Latour già trent’anni fa, misurandone i profetizzati danni politici, accatastandone le macerie sociali, collettivamente parametrizzati a modelli di misurazione del progresso basati sulla chiusura dei saperi, sul reddito medio (scordandoci della metafora dei polli), o premiando, a livello sistemico, gli stessi modelli d’innovazione che ci hanno scavato la fossa. Compriamo su piattaforme il cui elogio al modello di business o all’efficienza dell’esperienza utente ci fa dimenticar e quali siano i costi - sistemici - dei nostri nuovi comportamenti; adoriamo innamorarci di approcci tecnologici il cui potere immaginifico ce ne fa ignorare il significato profondo, galleggiando su mitologie sempre più deboli e nuovi eroi che decadranno, probabilmente, al prossimo tweet o col loro razzo spaziale.

L’innovazione che ci serve non è più – da sola – quella basata su di un progressismo incrementale, maieutico e paternalista, quello che ci fa bastare un primato “economico” da classifica sul ventiquattrore, la pancia piena oggi o meglio, un “apericena” durante il declino della nostra civiltà. L’innovazione che ci serve non è quella reotorica de “l’essere umano al centro” (oltre che concetto in toto da superare), fatta con post-it intrisi di pregiudizi o per assurdo continuando a lasciarla a chi pensa di poter decidere chi è più umano di un altro e non si fa di certo demandando a un Prometeo qualsiasi di generare il futuro per inferenza. L’innovazione che ci serve sarà figlia di un pensiero radicale - si, l’ho detto – che ci consenta di immaginare futuri diversi col coraggio di chi sa di non sapere come potrebbero essere e costruendo la prospettiva dei nostri gesti dalla giusta distanza spazio-temporale.